
Con sommo ritardo, e grazie al suggerimento di un amico, faccio un breve riflessione sulla presentazione della autobiografia di Jean Monnet, “Cittadino d’Europa”, svolta alla Fiera del Libro di Torino.
La ri-proposizione in Italia, grazie all’Editore Guida di Napoli, dopo quasi un trentennio di assenza (la prima edizione di Rusconi è del 1978), del testo del padre d'Europa più tradotta al mondo, è opera meritoria che denuncia altresì la poca fortuna del pensiero, e di conseguenza del metodo, monnettiano fino ad oggi nel nostro paese.
Leggendo “Cittadino d’Europa”, al di là del valore biografico e storico-documentale, ci si trova in effetti di fronte alla descrizione di un metodo, al cui centro c’è il dialogo, aperto e plurale, fra diversi e sul quale aleggia la capacità di individuare interlocutori e di persuaderli verso una azione cooperativa.
Un testo dunque che alla ricchezza di ricordi e retroscena della storia dalla Prima Guerra Mondiale agli anni ’70 del Novecento, aggiunge, pervaso nei capitoli, la nascita di un metodo, di una maieutica, lontanissima degli impianti idealistici e dogmatici tipica di gran parte della pubblicistica federalista italiana sull’europeismo.
Senza alcun riferimento al dibattito d'idee astratte ed utopiche sull'Europa, dal primo all’ultimo capitolo, assistiamo all’affermarsi pragmatico di una modalità di lavoro che crea co-operazione internazionale e concertazione tra le parti, nazionali o sociali. Si scorge cioè l’invenzione di far incontrare intorno ad un tavolo i diversi, per nazionalità, lingua, cultura, idea politica, ruolo sociale, al fine di ottenere che ognuno, conoscendo l’altro, creando reciproca fiducia, operi e si adoperi per un comune obiettivo, che consegua il “bene comune”. Tanto che si tratti della pace in Europa, o che si tratti di attuare politiche economiche condivise dalla parti sociali in Francia, possiamo chiaramente scorgere la fonte di quel metodo di lavoro che oggi viene definito con termini quali “diversity managment”, “cross fertilization”.
Riflettendo su questa autobiografia non si può non rendersi conto di essere di fronte a quanto c’è di più lontano dalla cultura fideistica/ideologica, corporativa, statalista e familistica del nostro paese, che versa nella situazione di crisi e sfiducia verso la propria classe dirigente, anche in quanto privo di figure alla Jean Monnet, con la sua autorità morale da ‘autodidatta’ e cosmopolita, e il suo agire laico, antidogmatico, liberale, aperto e plurale.
Se ancora oggi, leggendo la composizione del nostro parlamento, così come del Comitato promotore del partito Democratico, troviamo poche donne e giovani e i soliti nomi noti, con dubbie referenze ad autorità, è bene sapere che la causa è anche nella mancanza di quella cultura/azione incarnata da Monsieur Europe.
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il 26/5/2007 alle 18:34 | |