Le misure di contrasto e prevenzione della radicalizzazione violenta
sono assai delicate perché facilmente possono diventare anziché utili
piuttosto controproducenti e dannose.
L'Italia
faticosamente e tardivamente si sta avviando a sviluppare queste misure
con due strumenti, una proposta di legge, quella Dambruoso-Manciulli in discussione al Parlamento e una Commissione di esperti istituita ad agosto dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Gli
studi sul processo di radicalizzazione violenta, che partendo dalle
biografie dei terroristi hanno cercato di individuare dei modelli
predittivi per intervenire prima che un individuo commetta atti
violenti, hanno condotto a due approcci diversi e talvolta opposto
opposti.
Da una parte sono stati utilizzati per
sviluppare degli strumenti per monitorare e valutare il livello di
radicalizzazione violenta, in ambito esclusivamente jihadista, degli
individui soprattutto in ambito carcerario; e sono attuate nel contesto
di una attività di intelligence, e quindi di prevenzione tradizionale
delle forze di polizia, per intervenire, a livello nazionale di
sicurezza, con misure cautelari appena un individuo commetta un reato
prodromico al terrorismo.
Dall'altra, sono stati
utilizzati per implementare programmi, detti di contrasto o prevenzione
dell'estremismo violento (CVE - PVE), atti ad aumentare la resilienza
delle comunità rispetto ai fattori che agevolano il processo di
radicalizzazione violenta di qualunque matrice ideologico/religiosa e
sono attuati a livello locale in collaborazione tra servizi sociali,
organizzazioni delle società civile ed istituzioni, per intervenire con
una ampia gamma di misure "rieducative" prima che un individuo commetta
atti violenti.
L'Italia, in particolare il Ministero
della Giustizia, la sua amministrazione penitenziaria in coordinamento
con il C.A.S.A., cioè la polizia di prevenzione e l'intelligence, stanno
lavorando da qualche tempo sul primo approccio.
Il limite è
rappresentato dal fatto che gli strumenti per monitorare e valutare la
radicalizzazione violenta sono ormai ampiamente messi in discussione; in
particolare il loro valore scientifico e predittivo. La scelta di
rivolgersi poi alla sola radicalizzazione jihadista è quanto di più
pernicioso si possa fare.
Inoltre, nei paesi in cui i numeri delle
persone da monitorare sono molto alti, come in Francia, il monitoraggio
risulta di fatto impraticabile e inutile, come i fatti recenti di
terrorismo hanno palesemente evidenziato.
L'occasione
di una proposta di legge e di una commissione governativa, sono quindi
cruciali oggi affinché l'Italia non segua modelli inefficienti quando
non controproducenti, come quelli francesi, ma piuttosto si relazioni
con le migliori pratiche e politiche attuate in Europa e promosse ormai
da tutti gli organismi internazionali, che privilegiano il secondo
approccio.
Segnalo tre realtà, tutte già presentati su questo blog: quelle della rete europea RAN, quelle delle Nazioni Unite e quella del recente paper frutto di un progetto transatlantico UE-US.
(CONTINUA: Cosa ci dicono questi documenti e collezioni di approcci e buone pratiche?)